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16/06/2023 07:55:00

Canada 1982, Riccardo Paletti: fine di una storia mai iniziata


Storie di Formula 1 di Paolo Marcacci

Lo pensavamo anche all’epoca, come oggi ogni volta che ci capita di rivedere una sua immagine, un primo piano, qualche video di repertorio: ci sembrava e ci sembra che quella faccia e quella tuta con le scritte degli sponsor non fossero fatte per stare assieme, che fosse una specie di fotomontaggio. 

Perché Riccardo, con gli occhiali dalla montatura austera, l’aria seriosa e i capelli neri e mossi, a mezza lunghezza, sembrava uno studente di filosofia, un giovane medico, forse un musicista. O, ci viene in mente ora, una comparsa dei primi film di Nanni Moretti. 

Invece Riccardo Paletti era un pilota, perché almeno per questo riuscì a farselo bastare, quel fottuto tempo che sembra poco anche quando è abbastanza, figurarsi allora quando è ancora meno che poco. Riuscì a dimostrare di essersela meritata, quella Formula Uno la cui potenza gli sembrò subito spropositata, dopo la trafila delle formule minori e dopo aver fatto parlare bene di sé come di uno che aveva sempre badato alla sostanza dei fatti, a imparare il più possibile, a migliorarsi grazie al lavoro in pista. Anche per questo, sarebbe voluto rimanere in Formula Due, contrariamente a quanto dettato dallo sponsor Pioneer, per una stagione in più. Si sarebbe concesso altro tempo, se fosse dipeso da lui. 

Effetto suolo e telai spesso fragili,come era quello della sua Osella FA1C: la Formula Uno del 1982, alla fine vittima dei suoi troppi cavalli e dei suoi decolli, quando qualche inconveniente staccava le monoposto dal suolo. In una delle sue rare interviste, Riccardo si sentì chiedere se si sentisse pronto per un mondo che andava così tanto in fretta, in tutti i sensi. Rispose nella maniera meno prevedibile, dimostrando una maturità che andava ben oltre i suoi ventitré anni; disse che lui non lo vedeva come un mondo che va di fretta, quello della Formula Uno, perché - Più si è calmi più si va bene -. Idee chiare e di prospettiva, di un ragazzo intenzionato a prendersi tutto il tempo del quale avrebbe avuto bisogno. Al quale pensava di avere diritto. Nella stessa intervista, aggiunse di essere intenzionato a cercare un proprio mondo all’interno del mondo delle corse. 

Nel 1982 i semafori al via ancora diventavano prima rossi e poi verdi; Pironi in prima fila aveva iniziato a sbracciare prima che le luci si accendessero, per richiamare l’attenzione dei commissari sulla sua Ferrari in panne. Il resto è carambola, macchine che evitano la monoposto rossa ferma, la visuale negata a un ragazzo che dall’ultima fila cominciava il suo Gran Premio del Canada, ignaro del fatto che sua madre era arrivata a Montreal a sua insaputa, per fargli una sorpresa in vista del compleanno che Riccardo avrebbe festeggiato due anni dopo. 

Ciò che resta dopo l’impatto inevitabile, a quasi duecento chilometri orari, è un musetto accartocciato, una concitazione che si illude di soccorrere, fiamme improvvise che diventano fumo denso nutrito dal serbatoio pieno. Dietro quel velo spesso Riccardo smarrisce ogni cosa: i ventiquattro anni che non avrà il tempo di compiere, il gran premio dal quale avrebbe imparato qualche altra cosa in più, il suo nome sulla cronaca della gara fino all’ultimo giro. Infine, il tempo, che noi che scriviamo ci sentiamo in dovere di restituire a quelli che non l’hanno avuto. 

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