Elitario per i natali nobili che ebbe, oltre che per il patrimonio di famiglia; popolaresco ora il modo di scherzare e di intendere la vita; diremmo trasteverino non perché fosse realmente nato in quel quartiere ma come metafora della sua veracità, che riuscì a esibire anche in dirette televisive di prestigio, come quando a - La Domemica sportiva - voleva far indossare il suo casco all’ irreprensibile Tito Stagno.
Ignazio Giunti, un bel ragazzo figlio del Barone Pietro e della Contessa Gabriella, possidenti ed ereditieri; romano nell’accento e nello spirito; nato per guidare e motivato a farlo, all’inizio, all’insaputa della famiglia.
Sul suo casco, incastonata nel singolo dell’aquila bicipite c’era una grande “emme”, perché Ignazio piaceva a moltissime ragazze, ma Mara, Mara Lodirio, conosciuta alla vigilia di una Targa Florio, era speciale, oltre che bellissima.
Un’altra “femmina”, altrettanto bella, aveva fatto parte della sua vita scintillante, da privilegiato in ogni ambito: la Giulia GTA, che l’Alfa Romeo gli affidò appena Ignazio divenne professionista e al volante della quale iniziò a mietere vittorie nella categoria Gran Turismo; questo lo aveva portato a essere scelto dal Biscione anche per la categoria Sport Prototipi, che alla fine degli anni Sessanta vantava un credito equiparabile a quello della Formula Uno.
Nel 1969, il decollo definitivo di una carriera che si annuncia trionfale, perché il talento era la sua principale forma di ricchezza: per Ignazio Giunti la vita da ferrarista iniziò prima della Formula Uno stessa: Enzo Ferrari nel 1969 lo volle al volante della sua sport-prototipo, la 512. Ickx, Surtees, Amon e Merzario: questi i suoi compagni di squadra, termine di paragone da far tremare le gambe, che a Ignazio il romano però non tremarono. Non se le fece tremare al punto tale che il Vecchio decise che i tempi erano maturi anche per la regina delle ruote scoperte: al primo tentativo in Formula Uno Giunti si classifica quarto, su un tracciato non casuale: a Spa, tra le Ardenne. Come cominciare gli studi direttamente dall’Università.
Il Cavallino se lo era conquistato e meritato in ogni tipo di competizione; al Cavallino venne confermato, a furor di popolo e di rendimento.
Il 10 gennaio del 1971, sul tracciato di Buenos Aires per le Mille Chilometri, nulla era al proprio posto: non la Matra 660 di Beltoise, rimasta a secco di benzina e spinta dal francese con una traiettoria obliqua; non le bandiere gialle dei commissari, impreparati e incerti, che le sventolavano a intermittenza, senza conoscere bene alcuna procedura di sicurezza; non l’altra Ferrari, quella di Mike Parkes, ormai quasi doppiato, che gli precludeva la visuale. Persino il leggendario Juan Manuel Fangio, direttore di corsa per l’occasione, si fece trovare impreparato.
Parkes evita la Matra per un soffio, Giunti di conseguenza le arriva addosso in pieno, in un’esplosione di lamiere, supporti aerodinamici e fiamme istantanee, il cui colore vivido viene subito ingoiato da una colonna di fumo nero e denso.
Ignazio lo mastica un destino infame figlio di un articolato concorso di colpa, che lo avvolge in una nube tossica e gli spezza il collo. Alla sua predestinazione alla gloria si
sovrappone quella esistenziale, contro la quale nulla possono i condizionali circa ciò che in futuro sarebbe accaduto, se un futuro ci fosse stato. Un ragazzo che aveva sempre avuto tutto, tutto perse dall’altra parte dell’oceano, all’inizio di una stagione di gare che lo avrebbe visto approdare alla definitiva maturità.
Resta la memoria di ciò che aveva già dimostrato, oltre alle istantanee di uno scanzonato sorriso; a lui rendiamo omaggio, con il ricordo del primo grande romano dell’automobilismo, all’ombra della cui grandezza arrivarono poi Andrea De Cesaris, Elio De Angelis, Giancarlo Fisichella. A lui che con il volante in mano era stato l’oro di Roma.
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