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12/08/2025 08:30:00

Hamilton non è venuto a Maranello per sopportare vecchi errori


News di Daniele Muscarella

L’arrivo di Lewis Hamilton in Ferrari doveva rappresentare un nuovo capitolo, ambizioso, incentrato sull'esperienza di un sette volte Campione del Mondo, ma le cose non sono andate come si sperava. Il principale responsabile del fallimento è sicuramente un progetto tecnico pieno di strani difetti e inaspettatamente non all'altezza, ma quel circolo virtuoso necessario a progredire e basato sul feedback dei piloti a cui fanno seguito gli aggiustamenti in fabbrica non si è innescato correttamente e già dalle prime gare è riemerso un problema storico della Scuderia di Maranello e che in Formula 1 si paga caro: la comunicazione tra pilota ed ingegneri.

A sottolinearlo è stato Johnny Herbert, ex pilota di F1 e vincitore della 24 ore di Le Mans, con parole che pesano come macigni: “Ci deve essere comunicazione. Ma, con più comunicazione che mai, serve quel rapporto in cui puoi condividere e parlare di tutto. A volte sembra che le cose non vengano trasmesse al pilota. È quasi come dire: ‘Noi ingegneri sappiamo cosa stiamo facendo. Lascia fare a noi’. Ma non funziona così”.

La critica è chiara: un rapporto troppo rigido, che non permette di arrivare alla risoluzione condivisa dei problemi. “Non è giusto che un pilota e il suo ingegnere abbiano un rapporto così teso. Serve capire insieme quale sia lo scenario migliore. Qui sembra mancare comprensione, soprattutto nei momenti caldi”.

 

Solo a Maranello

Il paragone con Red Bull è inevitabile. “Devono essere molto più fluidi tra loro, per non commettere gli errori orribili visti negli ultimi anni. Non è solo un problema immediato, ma anche di creare un ambiente sano tra pilota e ingegnere. Non riguarda solo Lewis: abbiamo sentito Charles gridare in radio, ‘Cosa state facendo? Perché con queste gomme?’. Con gli altri team, quante volte lo sentiamo? Mai. Red Bull è la migliore sulla strategia: rapidi, lucidi e quasi sempre impeccabili”.


In Ferrai per vincere

Quanto a chi ipotizza un Hamilton pronto a gettare la spugna, JH cancella ogni dubbio: “No. È andato lì per un motivo: vincere l’ottavo titolo e diventare il primo pilota Ferrari campione del mondo dai tempi di Raikkonen. Per lui sarebbe la chiusura perfetta della carriera. Magari non accadrà, ma la sua motivazione è forte come sempre”.

La sfida 2026, quindi, non è soltanto sviluppare una macchina vincente, anche perché non sempre ci si riesce al primo colpo, ma trovare quel meccanismo di crescita che permette di fare piccoli passi avanti gara dopo gara, chilometro dopo chilometro, come ha fatto la McLaren in questo ciclo regolamentare. Perché in F1 il talento del pilota è inutile se insieme a tutti gli uomini del box non si stabilisce un rapporto di collaborazione intenso, trasparente e di fiducia.

 

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