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16/11/2025 16:00:00

Quando un tratto Rosso divenne leggenda


Storie di Formula 1 di Paolo Marcacci

"Lo metta sulle sue macchine quel cavallino, le porterà fortuna", così gli disse la madre di Francesco Baracca. Di lì a poco il Cavallino sarebbe diventato un sinonimo della scuderia, con la maiuscola. Ci sarebbe poi una versione romanzata, parallela, che narra che Enzo lo vide per la prima volta dipinto su una vecchia cassa dimenticata in un magazzino militare. Ci piace pensare che l'animale, disegnato con le zampe anteriori alzate, gli stesse suggerendo: - Cerca di meritarmi -. 

Nel cuore dell’Emilia degli anni Trenta, quando le strade odoravano ancora più di polvere che di benzina, Enzo Ferrari era un giovane uomo che incarnava un ossimoro: lo spirito visionario, le tasche vuote. 
Era un tempo in cui i sogni si costruivano a mani nude, in senso sia letterale che metaforico; una storia d'altri tempi, di prima del motore, come canta De Gregori; inteso in questo caso per un tempo in cui l'automobile era ancora un sogno per il popolo, un privilegio delle élite. Quel rombo, quando lo si udiva, valeva più di mille parole.

Un piccolo ufficio spoglio, spartano. Una scrivania disordinata: tra carte unte d’olio, un disegno che ancora disegno non era. Il tracciato di una linea rossa che pretendeva di diventare un’auto. Sognava? Enzo, chino sulla scrivania, certamente sì, in una fredda notte modenese quasi soffocata dall'ovatta della nebbia, quella che non ti fa vedere a un passo di distanza e forse proprio per questo consente di immaginare un futuro impensabile. Non c’era ancora un nome, solo il desiderio di creare qualcosa che pulsasse, con la forza della meccanica e con alle spalle le pulsazioni delle cose vive.

Siccome la nebbia fonde e confonde anche i confini tra realtà e leggenda, si narra dell'incontro con un anziano meccanico di campagna, uno di quelli che sapeva ascoltare il motore come fosse un cuore umano. Un avanguardista vecchio solo per generazione. L’uomo gli disse: - Non serve costruire un’auto veloce. Serve costruire un’auto che non voglia mai fermarsi -.

Ci voleva un gruppo di uomini come la ciurma di Ulisse: gente che condividesse la sua stessa follia: sognare la velocità in un mondo che procedeva ancora troppo lentamente. 

In un capannone, antenato di uno stabilimento, convivevano discussioni, rumore di attrezzi, a volte risate e più spesso urla. 
Ogni vite serrata era una promessa; ogni errore, una lezione incisa nel ferro.

Forse in quei giorni lui e quelli che gli diedero retta cominciarono a meritarsi quel Cavallino. L'unico che non avrebbe più avuto bisogno di specifiche ogni volta che nel mondo sarebbe stato nominato. Come, Dante, Caravaggio, Michelangelo. Era oggi, ma nel 1929, che quel tratto rosso smise di essere soltanto un colore. Era diventato uno stato d'animo. 

Ed era il 12 marzo 1947 quando la prima macchina venne partorita da una piccola officina di Maranello.
Quelli che erano lì raccontarono di aver sentito qualcosa che sembrava un ruggito. Più una belva alla quale sia stata aperta la gabbia, che un concerto di pistoni. 

Enzo posò la mano sul cofano caldo e disse con voce ferma, da padre:
- Andrai lontano. Ma non dimenticare da dove vieni -. 

Ancora oggi, quando una Ferrari ci affianca al semaforo, appena il disco si fa verde, l'asfalto non vibra per un pedale che si abbassa, ma perché nessuno mai riuscì a catturare la belva fuggita dall'officina.

Foto interna www.museobaracca.it