Da quando qualche buontempone ha deciso di eliminare i test privati, la pausa invernale è diventata un vero e proprio stillicidio per gli appassionati di Formula 1. Uno scenario alla Trainspotting in cui l'astinenza da Gran Premi si alterna a notizie di secondaria importanza, snocciolate col contagocce da quei cattivoni della stampa per placare, almeno in parte, la sete di corse dei tifosi. Tempi duri per i contemporanei Spud delle ruote scoperte, costretti a spulciare il feed delle news motoristiche alla ricerca di un segno di vita da parte dei loro eroi.
Per fortuna quegli altri buontemponi di Liberty Media se ne sono usciti con un prodotto che sulla carta dovrebbe soddisfare l'appetito dei tanti motorhead sparsi per il mondo. Si chiama Drive To Survive, cavallo di Troia mediatico voluto degli yankees per avvicinare nuovi appassionati alla massima serie automobilistica. Con notevoli risultati in termini di share. In Gold We Trust.
Per sfortuna, la serie Netflix non racconta un granché di cose che dovrebbero interessare chi ama il motorsport. Drive To Survive non dice come si arriva a ottenere un buon assetto mecccanico, o quali sono le finestre di utilizzo degli pneumatici, né tantomeno offre parola a un qualsiasi ingegnere che potrebbe parlarci di bilanciamento, carico aerodinamico e problemi di trazione. Spunti tecnici: non pervenuti.
Argomenti che sarebbero oro colato per chi ama questo sport. Invece no: le telecamere sono impegnate a riprendere scaramucce tra piloti, battibecchi tra team mate, indiscrezioni e qualsiasi altra cosa possa alimentare la fame di gossip dei neoappassionati (perlopiù a stelle e strisce) di Formula 1. Eventuali dissidi mai nati possono essere abilmente insinuati in fase di editing, sfruttando la maestria dei montatori di scuola hollywoodiana in forza alla casa di produzione. F Wrestling.
Tutto questo non piace alla maggior parte dei piloti, obbligati per contratto a non poter tirare un destro nell'obiettivo del cameraman-guardone. La bonanima di James Hunt saprebbe come sistemare la faccenda. Non piace, immaginiamo, nemmeno ai tecnici ai box, che potrebbero magari concentrarsi sulla messa a punto delle monoposto nei preziosi minuti a loro disposizione durante le sessioni di prove libere. Senza lo zio Sam alle calcagna, s'intende.
Il format mette in scena, lo ripetiamo, cose che con le competizioni non c'entrano un granché, e agli appassionati storici di Formula 1 risulta fastidioso solo come una tenelovela può esserlo. Con rare eccezioni, magari. C'è tuttavia da riconoscere un merito alla produzione, ossia quello di aver dato spazio a personaggi che altrimenti, con buone probabilità, avrebbero continuato a lavorare nell'ombra o giù di lì.
Stiamo parlando dei Team Principal, il cui aspetto umano, quello più verace, è stato abilmente messo in luce da quei buontemponi di Netflix. E per la legge dei grandi numeri, se ti presenti con una telecamera in Pit Lane la gente finisce per appassionarsi alle figure più carismatiche, a quelle più colorite, o a chi semplicemente buca lo schermo per grazia ricevuta.
Chi dirige le operazioni al muretto ha sempre lavorato nella penombra, nonostante su tali figure pesi, da sempre, un'enorme carico di responsabilità. I TP delle scuderie più competitive si concedevano ai media, ante Netflix, a fine Gran Premio o alle più autorevoli penne d'assalto in qualche intervista invernale. Per i capi dei team minori, decisamente meno mainstream per via dei risultati in pista, lo spazio pubblico è stato sempre risicato.
Tutto questo accadeva quando in Formula 1 contavano i risultati, lo sviluppo e le prestazioni, più che il gossip. Eppure di personalità quantomeno spigolose se ne sono viste: da Ken Tyrrel a Ron Dennis, senza dimenticare Sir Frank Williams. Gente con ego e attributi da vendere, eppure le loro personali battaglie, anche psicologiche, sono rimaste sempre nell'ombra e appannaggio di qualche feroce appassionato pronto a spulciare, settimanalmente, i rotocalchi specializzati a caccia di dichiarazioni meno à la page.
Nel frattempo il Circus è cresciuto: più gare, interessi economici più cospicui e una macchina mediatica sempre più imponente hanno generato un piacevole effetto collaterale. Alle telecamere di Drive To Survive va riconosciuto il merito di aver portato alla ribalta il lato umano dei Team Principal, figure centrali nello sport che amiamo e che meritano certamente il loro posto al sole. E così abbiamo imparato a conoscere personaggi abituati a lottare nelle retrovie, quando va bene a centro classifica. E abbiamo scoperto che nel mare magnum dei secondi spiccano personaggi dall'eccezionale carica umana.
Un nome su tutti: Günther Steiner. L'altoatesino in forza alla Haas, mai arido di esternazioni colorite, è diventato estremamente popolare soprattutto negli States, proprio a causa del suo carattere schietto e deciso. A conferma di quanto la gente ami l'ingegnere di Merano basti sapere che in occasione del GP texano sono state vendute badilate di magliette con la sua immagine stampata sopra.
Il merchandising del buon Steiner è andato sold out in pochissimo tempo. Se non bastasse questo aneddoto a dare un'idea della sua popolarità, il manager è prossimo a pubblicare un libro autobiografico in cui racconta i retroscena della dura vita da Team Principal. Una figura del genere non può che fare del bene alla Formula 1, che può così sfruttare i suoi attori principali per raggiungere un pubblico sempre maggiore.
"La cosa è sotto gli occhi di tutti. Prima noi team principal eravamo poco riconosciuti, ora tutti ci conoscono. Guarda, hanno persino realizzato un videogioco con noi 10 pagliacci. Ora riceverò insulti dai colleghi per averci definiti pagliacci. Siamo sempre stati lì, ma rimanevamo nel paddock senza uscire allo scoperto. Ora facciamo parte di un cast perché la gente vuole vederci. Netflix ha fatto tanto per darci popolarità, e ha mostrato che non sono solo i piloti a combattere, ma anche noi".
Steiner si riferisce in prima battuta al videogioco F1 Manager 2022, uscito all'inizio dell'anno: si tratta dei primo simulatore di gestione F1 realizzato da 22 anni a questa parte. E ironizza sulla figura del Team Principal come attore di primaria importanza nel Circus iridato, accostandola a quella di un clown. Infine insiste su Drive To Survive, la diversamente fortunata serie a cui si deve la sua esplosiva popolarità.
Insieme a quella dell'altoatesino sono emerse in tutta la loro coriaceità altre figure, peraltro già ben esposte a stampa e TV, in siparietti e battibecchi di un certo calibro prontamente riprese dalle telecamere di Netflix. Stiamo parlando di Christian Horner e Toto Wolff, due personaggi che non hanno bisogno di una soap opera per farsi riconoscere, e decisamente senza peli sulla lingua.
Celebri i loro duelli semantici del 2021, a lotta mondiale ancora in corso: per Horner, che ha definito Wolff un maniaco del controllo, la risposta non si è fatta attendere: "Horner è uno sfacciato che vuole sempre essere davanti alle telecamere". Finita qui? No di certo, perché il pacato inglese della Red Bull ha successivamente rincarato la dose: "Più Toto si carica, più diventa divertente".
Niente di nuovo sotto al sole quindi, con i Team Principal pronti a darsi battaglia dentro e fuori le piste (quando non in tribunale) con la stessa grinta scaricata sull'asfalto dai loro piloti. Quelli di Netflix hanno saputo vendere al grande pubblico la drammatica narrativa che sottende a sfide sportive così tirate, col risultato di incassare un botto di soldi far crescere significativamente la popolarità della Formula 1. E i Team Principal si sono ritrovati, improvvisamente, con lo Status di superstar cucito addosso.
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