Il bombardamento israeliano a Doha, che poche ore fa ha preso di mira la sede della leadership politica di Hamas in Qatar, rischia di avere conseguenze dirette anche sulla Formula 1. Il Losail International Circuit, sede del Gran Premio di F1, dista appena una ventina di chilometri dalla capitale colpita: un raggio d’azione che pone seri interrogativi sulla sicurezza del prossimo evento in calendario.
L’attacco, rivendicato da Netanyahu come risposta ad attentati avvenuti in Israele, ha scosso la regione e messo in crisi la mediazione del Qatar per un cessate il fuoco a Gaza. Qualcosa di simile era già successa in passato: nel 2022, durante il weekend del Gran Premio in Arabia Saudita, un impianto di Aramco venne colpito da missili a pochi chilometri dal circuito di Jeddah, obbligando FIA, team e piloti a una lunga riunione notturna per valutare se correre o meno. Alla fine la gara si disputò, ma quell’esperienza resta come precedente ingombrante.
Il contesto odierno, con un conflitto in atto che ha ormai travalicato i confini di Gaza, rende fragile la prospettiva di una Formula 1 che continui a correre in Paesi direttamente coinvolti. Proprio come avvenuto con la Russia nel 2022, quando il GP di Sochi fu cancellato dopo l’invasione dell’Ucraina, sarebbe opportuno che la F1 applicasse un principio di coerenza: non trasformare lo sport in uno spettacolo sospeso sopra le macerie.
La domanda ora è inevitabile: la Formula 1 può davvero garantire sicurezza ai protagonisti del Circus, e soprattutto può ignorare la crisi umanitaria di un conflitto con centinaia di migliaia di morti tra i civili e scegliere il paradigma dello "spettacolo che deve continuare"? La risposta non può essere rimandata, e la credibilità dello sport passa anche da queste scelte.
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