Sono contenti, in ordine sparso, Horner, Verstappen e i ferraristi, del suo rinnovo con la Red Bull. Dovrebbe, ingaggio a parte, perché resta tra i meglio pagati, essere scontento lui; o non del tutto contento, perlomeno. A trentaquattro anni, Sergio Perez sceglie di restare in quella particolare dimensione di "comfort zone" che è il ruolo di seconda guida per i cosiddetti bibitari.
Restare dove si è senza poter ambire e nemmeno aspirare (sono due cose leggermente diverse) a qualcosa di più di ciò che si ha - conoscendo bene il confine con ciò che non si potrà avere, ossia la possibilità di una vera bagarre con il compagno di squadra - equivale per via di metafora a non partire nemmeno: un controsenso, in Formula Uno.
Si potrà obiettare che il nostro è un ragionamento distaccato da appassionati, quindi un po' da bar dello sport; può darsi. Però anche al bar dello sport ricordiamo un altro paradosso, già che ci siamo: Perez ce lo ricordiamo, sin dal suo esordio con la Sauber nel 2011, come uno che era destinato a un crescendo frutto della sua velocità e del suo talento, comprovato anche nelle scuderie successive, ossia McLaren, Force India, Racing Point, prima della Red Bull. Una volta approdato in Red Bull, avrà forse impiegato poco a comprendere la differenza tra una comfort zone (sempre con tutte le virgolette del caso) e una gabbia dorata? Certamente sì, perché è rispetto alle potenzialità della scuderia e al dominio del compagno nelle ultime stagioni che la sua bacheca sembra piena di...briciole, non in assoluto.
Sei gran premi vinti, 39 podi e 11 giri veloci in 265 partenze, più tre pole position. Secondo nel Mondiale 2023. Bene, apparentemente, ma da altre parti quanto sarebbe stato più libero e di conseguenza più competitivo? Perché ricco lo sarebbe stato più o meno nello stesso modo, ma non sapremo mai, forse mai più, quanto sarebbe stato protagonista. Forse non se lo chiede lui, non più, come ce lo chiediamo noi.