La Storia non è quasi mai giusta, a cominciare da quella con la maiuscola: quando dimentica, quando omette, quando sovraespone alcune vicende mentre tante altre ne colloca sotto il cono d’ombra di una dimenticanza quasi assoluta. La storia dello sport non fa eccezione; figurarsi allora quella dell’automobilismo, dove in tanti passano, pochi vincono, in troppi non sono tornati.
Tanti anni fa, la Formula Uno ha visto passare il suo Sigfrido, che non era Stohr, il quale all’anagrafe si chiamava davvero così.
Il nostro Sigfrido era giovane come tutti gli eroi; tale sarebbe rimasto per sempre. Come chi è caro agli dei, secondo i versi di Menandro, ma è solo la consolazione per il tempo che non basta a nessuno, ma che per alcuni sembra quasi non essere iniziato. Solo il tempo di lasciare una scia nelle pupille di chi resta a interrogarsi su ciò che sarebbe accaduto se l’eroe si fosse trattenuto, da questa parte della barricata dove le cose si fa in tempo a raccontarle e non a supporle; dove il destino resta attaccato alla storia come la pelle alle ossa; dove il vincitore segue il tracciato delle sopraggiunte rughe e ascolta la sua voce raccontare di tutti i giri portati a termine.
Sigfrido ebbe a disposizione un giro solo, se lo fece bastare affinché continuassimo a dire che c’era stato anche lui; tutto il resto del percorso gli fu impedito, così come a noi tolsero lui, che facemmo solo in tempo ad ammirare: Stefan Bellof, tedesco dell’allora Germania Federale, nato a Giessen, sopra Coblenza, il 20 novembre del 1957. Castano chiarissimo, più che biondo; magro al punto tale da sembrare filiforme, profilo aguzzo e sguardo febbrile. Nato per guidare: tanto su ruote coperte che sulle monoposto con le gomme in vista, di formula in formula, di stupore in stupore.
Fece in tempo anche a vincere, Sigfrido, soprattutto con le vetture Endurance, soprattutto in quel 1984 attraversato quasi volando, con il team delle Porsche ufficiali.
L’anno prima, l’incisione più profonda che fece in tempo a lasciare senza che il tempo gli fosse concesso: sul dedalo del vecchio Nürburgring l’immortalità motoristica di Sigfrido respira ancora nei suoi record: 6’11”13 in qualifica, 28 maggio 1983 e poi 6’25”91 in gara, il giorno successivo.
Per noi, però, Stefan Bellof sarà sempre lo sconosciuto, più sconosciuto ancora del ragazzo dal casco giallo, che tra i rivoli di pioggia che lucidavano l’asfalto di Montecarlo durante il Gran Premio del 1984 era riuscito a risalire dalla ventesima alla terza posizione, con una Tyrrell obsoleta e per nulla competitiva, che poi avrebbe patito una pesante squalifica per cause regolamentari. Il grande pubblico si ricorda a fatica di quel suo miracolo in equilibrio tra le scie tremolanti di quasi tutti gli altri: quel giorno il ragazzo dal casco giallo aveva occupato la scena, superando Alain Prost un istante dopo l’interruzione della gara. Quel punteggio dimezzato sarebbe costato a Prost il titolo mondiale; il ragazzo dal casco giallo non sarebbe mai più uscito dal fascio di luce, in un modo o nell’altro. Per la rimonta di Sigfrido in pochi avrebbero allora avuto tempo di spendere parole: anche per questo torniamo a farlo noi, che scriviamo anche per risarcire.
Quello stesso destino che recide funi, al tempo stesso annoda fili: il direttore di gara quel giorno a Monaco era Jacky Ickx. Lo stesso, grande pilota che il primo giorno di settembre del 1985 era su un’altra Porsche, alla 1000 chilometri di SPA. Fianco a fianco nel cuore dell’Eau Rouge, fatta per strangolare traiettorie. Chi osa e chi chiude, Bellof che battezza lo spazio e il grande Ickx che lo copre. Il resto è fumo, che avvolge il telaio e che richiama i curiosi, in attesa dei soccorsi che spengano le fiamme attorno a ciò che s’è spento già.
Il tempo che non bastò a Sigfrido per dimostrare davvero chi fosse, ce lo siamo preso noi per dimostrargli che avevamo fatto in tempo a capirlo.
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