Il figlio del chirurgo non avrebbe mai terminato gli studi di Medicina. Sotto un casco verde stava nascosta la sua storia, lui non poté fare altro che viverla, come accade sempre quando c'è in ballo una predestinazione. Da un certo momento in poi se la portò anche sul viso, facendoci crescere sopra due dita di barba.
Henri Pescarolo, venuto alla luce nel 1942 in una Parigi ancora occupata dai nazisti; sbocciato alle corse una ventina d'anni dopo, per poi attraversare ogni tipo di competizione con la passione tipica di un'epoca in cui le occasioni se le andava a cercare anche chi non se le poteva permettere del tutto; in un'epoca in cui era normale scendere da una monoposto di Formula Uno per allacciare le cinture di un prototipo, gareggiando pur di gareggiare, per la stessa ragione per la quale si mettono in viaggio i nomadi: il viaggio stesso.
La sua Formula Uno iniziò quando ancora gareggiava per le formule minori e dopo aver vinto il titolo in Formula Tre nel 1967: in principio fu una Matra MS11, al Gran Premio di Montreal. La sua storia a ruote scoperte racconta l'esatto contrario di quello che pensa chi consulta soltanto gli almanacchi, perché Pescarolo dopo la Matra ha corso per Frank Williams quando la Williams ancora non c'era, per la March, per la Surtees TS19, per la BRM. Può raccontare lo stesso di tanti piazzamenti, di un podio a Montecarlo, di un record di velocità media sul giro fissato 247,016 chilometri orari, rimasto imbattuto fino al 2018.

Il problema era e soprattutto è di chi quando pensa alle corse automobilistiche si fa venire in mente solamente la Formula Uno: il casco verde di Henri Pescarolo racconta che la leggenda dell'Endurance ha un intero capitolo da dedicare al figlio del medico dal cognome italiano, che ha vinto la 24 Ore di Le Mans quattro volte: nel 1972, nel 1973, nel 1974 con la Matra; dieci anni di dopo un'altra volta, su Porsche 956.
Le Mans porta il nome di Henry Pescarolo nel libro mastro dei suoi indimenticabili; Pescarolo dal canto suo porta Le Mans sul volto da quando, durante le prove del 1969, lui andò a fuoco con la sua Matra attorno, prigioniero di un abitacolo che fece in tempo a tatuargli piaghe sul volto e sulle dita. Da allora si fece crescere la barba, per coprire i segni. Divenne il suo tratto distintivo, assieme al casco verde, quel puntino velocissimo che anche in Formula Uno avrebbe meritato di poter competere con i migliori, per dimostrare di essere uno di loro.
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