Non conta dove sei ora, se tutto il mondo ricorda dove e cosa sei stato. Quello nessuno potrà portartelo via. Non si senta, per questo, meno responsabile il destino per i suoi sgambetti; però lungo la scia lasciata da un solo uomo s’era incamminato un popolo intero, che non ha mai smesso di essergli grato. Sono un popolo, i Ferraristi; sparso per il mondo, capace di interminabili attese perché riempie con la gloria trascorsa, ma mai passata, il vuoto del tempo privo di vittorie.
Quando Michael Schumacher si sistemò per la prima volta nell’abitacolo della Ferrari, erano molto più recenti i suoi due titoli mondiali con la Benetton rispetto all’ultimo vinto dalla Rossa, nel 1979 con Jody Scheckter e quel meraviglioso scudiero che in quella stagione aveva saputo essere Gilles Villeneuve. Eppure, aveva già capito, il tedesco, che vincere è meraviglioso, vincere con la Ferrari sarà sempre qualcosa in più. Diverso, romantico a prescindere dalle epoche, persistente nel tempo come un amore che fa sbiadire tutti gli altri. È per questo che per parlare di lui in modo autentico non ci rivolgeremmo a un avversario, a un team manager o a un decano del giornalismo. Ci rivolgeremmo a un meccanico, a una cuoca di Maranello, a un qualche addetto ai lavori tra quelli che ogni volta che gli davano il buongiorno si sentivano partecipi di una grande storia.
Sappiamo bene che è attorno ai numeri che gira il mondo e che questo principio vale per lo sport in modo particolare. Proprio per questo, ci teniamo stretti quei rari esempi in cui i numeri non sono sufficienti a spiegare tutto, le vittorie e i record non bastevoli a motivare l’assoluta grandezza di un campione. Quest’ultima parola non basta a definire chi e cosa sia stato Michael Schumacher: lui i campioni li ha battuti tutti, quelli del presente e quelli che rispetto a lui avevano già un piede nel futuro. Ed è stato più grande persino dei suoi cinque titoli mondiali con il Cavallino, dal 2000 al 2004; più del numero dei gran premi vinti, degli “hart trick”, delle pole, dei giri veloci e di ogni altro muro abbattuto sopravanzando i numeri degli altri.
La Ferrari non può avere un marito, perché avrà sempre milioni di amanti. Allora, a proposito di uno come lui, abbiamo capito una cosa: che non sia soltanto una questione di cifre e di almanacchi, la sua persistenza nella memoria di ogni amante della Ferrari, lo dimostra il fatto che quando alcuni di quei record sono stati battuti, tutti abbiamo trovato naturale precisare che “quelli realizzati da Michael erano un’altra cosa…” e nella vaghezza di questa espressione c’è il condensato di tutte le emozioni, degli episodi di gara più persistenti degli stessi titoli mondiali, nella memoria; dell’interpretazione eretica, quasi folle di alcune tattiche di corsa, distillate con la chiaroveggenza dei visionari. Una percezione di dominio assoluto e di grandezza che si colloca più in alto di ogni trionfo, perché sublima ogni vittoria. Con tutto il rispetto per Lewis Hamilton e per chi dopo di lui aggiornerà le cifre degli almanacchi.
Se con la memoria delle emozioni, perché quella dei numeri è al sicuro nel cassetto della statistica, ripercorressimo tutta quell’era quasi geologica avvolta nella stoffa a scacchi di settantadue traguardi vittoriosi, dal Gran Premio di Spagna del 1996 a quello della Cina del 2006, capiremmo quanto nel frattempo il mondo era cambiato, in ogni aspetto, mentre alzando lo sguardo verso il gradino più alto di un qualsiasi podio lo sguardo continuava a essere guidato dalla stella polare della sua tuta rossa.
Forse abbiamo scritto una cosa sbagliata, o non del tutto giusta, qualche riga più in alto. Perché è vero che la Ferrari avrà sempre troppi amanti, per desiderare un marito, ma il giorno in cui la Rossa dovesse chiedersi chi sarebbe stato il suo sposo ideale, col suo alito profumato di benzina e tra labbra sottili di alettoni mormorerebbe il nome di Michael Schumacher.
Foto www.ferrari.com
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