Lo sguardo acceso e un lampo lucido ad attraversarlo, le pupille che cercavano freneticamente di abbracciare ogni angolo dell'inquadratura, la ricerca dei termini italiani per dar senso al discorso che stava facendo. Non solo perché aveva imparato ad arte un pugno di frasi, ma perché nel mentre comprendeva ciò che stava dicendo al popolo ferrarista. Anzi: ciò che stava dicendo alla Ferrari stessa, come a una donna da sedurre, un'entità, una personificazione.
Più commozione che semplice emozione, mista a imbarazzo perché uno come lui, abituato a kermesse e vernissage di ogni sorta, vestito da cavaliere rosso stava percependo in quegli stessi istanti cosa voglia dire essere in Ferrari. Essere Ferrari, anzi, semplicemente. Partendo dal presupposto che essere Lewis Hamilton è già qualcosa di molto speciale, di esclusivo anzi, ma che esserlo in Ferrari è unico, il che può far tremare le gambe, o la voce, anche a un fuoriclasse raro.
La solennità di quella commozione, prima che a parlare sia la pista, ci dice che Hamilton è già "dentro" la Ferrari, intesa non solo come abitacolo.
Ora, cerchiamo di meritarlo.
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